
20 Ott IL CAPO DEL PERSONALE NON PUÒ OFFENDERE LE PROPRIE DIPENDENTI. LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO.
La Cassazione con la sentenza 26 settembre 2023, n. 27363 si esprime in materia di licenziamento disciplinare evidenziando in tema di giusta causa l’importanza dell’obiettivo disvalore dei fatti contestati e del ruolo dell’autore degli stessi.
Il caso
Al capo del personale di una Fondazione con sede in Sicilia, vengono addebitati due episodi disciplinarmente rilevanti e precisamente il fatto di aver “dato una pacca sul sedere” ad altra dipendente della Fondazione, ed un commento nei confronti di altra lavoratrice, nell’occasione intenta a fare delle fotocopie girata di spalle, concernente “l’età” ed il proprio “sedere”, con espresso invito a girarsi in modo tale da mostrarlo anche ad altro dipendente, “affinché anche lui potesse fare i propri apprezzamenti”.
Licenziato, l’autore dei fatti aveva avuto dal Tribunale di Palermo sia in fase cautelare che in fase di merito il riconoscimento dell’illegittimità del provvedimento espulsivo.
La Corte d’appello, in accoglimento del reclamo proposto dalla Fondazione datrice di lavoro delle interessate, riformava invece quanto deciso dal Tribunale rigettando l’originario ricorso e condannando il ricorrente alla restituzione dell’indennità ricevuta a titolo di risarcimento del danno patito dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione, con gli interessi legali dalla data della sua pronuncia al saldo.
La Corte territoriale riteneva erronea l’interpretazione della contestazione disciplinare fornita dal Tribunale, e di cui si doleva la Fondazione reclamante, perché detta contestazione “non qualificava giuridicamente i fatti di rilevanza disciplinare in base alla “abitualità o reiterazione della condotta”“.
Riteneva altresì che l’esito dell’istruttoria conducesse a conclusioni di segno opposto a quello espresso dal Tribunale, e convergenti nel senso della sussistenza della giusta causa del recesso.
Il ricorso del capo del personale
Lo stravolgimento della sentenza di primo grado ha dato luogo al ricorso del lavoratore licenziato il quale di fronte al giudice di legittimità ha sollevato innanzitutto il tema della qualificazione giuridica della fattispecie in esame, affermando come la Corte d’Appello avrebbe disatteso l’interpretazione sistematica dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 18 L. n. 300 del 1970 (come novellato dalla legge 92/2012) alla luce del prevalente orientamento giurisprudenziale formatosi sul punto, lamentando in particolare come, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, i fatti contestati dovevano ritenersi insussistenti, sia sotto il profilo storico/materiale sia, e soprattutto, sotto il profilo giuridico, e quindi disciplinarmente irrilevanti, ed in ogni caso non integranti una giusta causa di licenziamento ancorché non dimostrati.
Secondariamente il ricorrente ha impugnato quei capi della sentenza ove il giudice d’appello, secondo la propria ricostruzione, avrebbe del tutto pretermesso l’esame della condotta a lui ascrivibili sotto il profilo soggettivo, così come invece emerso in sede probatoria, ritenendo non provato e/o non emerso in sede giudiziale un fatto dirimente ai fini del decidere.
Infine, l’impugnante, ha sostenuto che il giudice d’appello non avrebbe fatto buon uso dei canoni vigenti nell’interpretazione delle norme di cui all’art. 1362 e ss. c.c., in relazione alle previsioni di cui all’art. 33 del CCNL applicabile alla fattispecie in esame, lamentando, oltre alla violazione delle regole di ermeneutica l’affermata sussunzione, ad opera dei giudici di secondo grado, della fattispecie concreta alle previsioni di cui agli artt. 2.2. lett. g) e 6 del Codice Etico della Fondazione resistente, così come accertata dal giudice di merito in base alle prove e allegazioni delle parti.
Le motivazioni della Sentenza
Il Collegio nel formulare la sentenza ha tenuto conto di molteplici aspetti legati alla vicenda, in particolar modo delle analisi sui fatti compiute dalla Corte d’Appello la quale aveva osservato che le circostanze elencate nella lettera di contestazione disciplinare, erano complessivamente da considerarsi rilevanti sotto il profilo della lesione del vincolo fiduciario e andavano dunque valutate per il loro disvalore sociale.
Gli episodi, infatti, non devono essere considerati come “molestia” – sia essa “generica” o “sessuale”, ma devono essere valutati senza alcuna qualificazione giuridica non avendo alcun rilievo la circostanza che la dipendente non avesse proposto denuncia in sede penale.
La contestazione disciplinare.
La motivazione che ha come oggetto la contestazione disciplinare appare di particolare rilievo, posto che si instava al fine di considerare applicabile alla vicenda de qua l’orientamento giurisprudenziale che richiede, per stabilire la rilevanza disciplinare di un addebito e, dunque, l’esistenza – o meno – di una giusta causa di licenziamento, che il giudice sia tenuto a vagliare tanto l’aspetto oggettivo quanto quello soggettivo, come l’intenzionalità, il grado più o meno accentuato di colpevolezza, la necessità di dimostrare il dolo o la colpa dell’agente, non potendosi quindi prescindere da una valutazione complessiva delle circostanze concrete in cu si realizza la condotta contestata.
La Corte ha ritenuto, in adesione a quanto riconosciuto dai giudici di merito, che i fatti accertati, contrariamente, a quanto asserito dal ricorrente, erano stati valutati anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo delle condotte addebitate, di cui senz’altro è stata ritenuta la volontarietà.
Si è dato evidenza infatti, che effettivamente il ricorrente aveva dato una pacca sul sedere della collega, “non un “palpeggiamento”, ma nemmeno una pacca sulla schiena”, così come le altre circostanze contestate con riferimento a detto episodio, che lungi dal valere a “qualificarlo nelle intenzioni del ricorrente che lo aveva posto in essere e descrivere le reazioni della lavoratrice che lo aveva subito, senza potere di per sé costituire condotta neppure in astratto disciplinarmente rilevante”, come reputato dal Tribunale, denotavano, invece, le finalità tutt’altro che goliardiche e cameratesche del gesto ricondotto ad una “confidenza fra colleghi”, e la condizione, invece, di profonda mortificazione della collega che le aveva subite.
Approfondendo ulteriormente emerge come la Corte palermitana aveva osservato che “l’obiettiva offensività della condotta non è in alcun modo da collegare a ciò che il ricorrente possa aver detto successivamente all’accaduto, ma da valutare per la volgarità dei gesti compiuti dallo stesso – anche in relazione al ruolo da costui rivestito – nella prospettiva del datore di lavoro che viene a conoscenza di simili “attenzioni” verbali e fisiche verso le proprie dipendenti, nonché per la contrarietà alle basilari norme della civile convivenza e dell’educazione”.
Valutazioni dalle quali la Cassazione non ha inteso discostarsi accentuando se mai il carattere volontario dei gesti addebitati ed il riflesso degli stessi sul vissuto delle lavoratrici coinvolte.
Sulla condotta addebitata quale giusta causa di licenziamento in relazione al ruolo svolto dal ricorrente.
Sul tema occorre premettere che la fondazione datrice di lavoro dei protagonisti della vicenda applica un Codice Etico in aggiunta al CCNL di settore.
Tale circostanza assume rilievo in quanto la Cassazione ha ritenuto, in linea con la Corte d’Appello di Palermo, i fatti in premessa certamente contrari non solo al predetto Codice Etico… come da segnalazione indicata nella lettera di contestazione disciplinare che aveva evidenziato il ruolo del ricorrente quale Capo Ufficio del personale sul quale grava l’obbligo espresso di adoperarsi per il mantenimento di un clima interno rispettoso della dignità e della personalità individuale dei dipendenti/collaboratori…”, ma anche nel complesso contraria al ruolo di cui il ricorrente era anche titolare, ovvero quello di Responsabile della Prevenzione e Corruzione e Responsabile della Trasparenza.
Gli incarichi di cui sopra facevano assumere al ricorrente un particolare ruolo di garanzia specifica in relazione alla concreta ed effettiva applicazione delle norme e dei principi di cui al medesimo Codice Etico che di tutta evidenza hanno aggravato la posizione dell’autore dei fatti di cui al giudizio nei confronti del quale è stato ritenuto applicabile l’all’art. 33 del CCNL di settore che punisce “con il licenziamento senza preavviso tutti i casi in cui la violazione sia talmente grave da non consentire la prosecuzione del rapporto lavorativo, con una norma di apertura rispetto a tutte quelle condotte non espressamente individuate”.
Le evidenze probatorie esposte e rilevate in grado d’appello, così come la portata intera del giudizio di Cassazione fanno concludere la Corte nel senso di individuare nel caso di specie una “irrimediabile lesione del vincolo fiduciario” anche ed in specie al peculiare ruolo di Capo del personale rivestito dal ricorrente ed alle connesse responsabilità, e dal venir meno di quel sereno affidamento circa la corretta esecuzione dei compiti affidatigli, in ragione dell’atteggiamento irrispettoso manifestato verso le lavoratrici e dell’ambiente professionale del teatro in cui tale figura apicale deve sapere correttamente relazionarsi con le dipendenti siano esse amministrative o appartenenti all’area artistica”, soggiungendo che: “Le condotte censurate hanno, poi, compromesso l’organizzazione del lavoro all’interno della Fondazione anche in ragione del comprensibile turbamento delle relazioni gerarchiche che il ricorrente, sovraordinato, doveva intrattenere con gli altri dipendenti”.